Un documento lungo, che di seguito riportiamo integralmente, quello elaborato da monsignor Antonino Staglianò Vescovo della Diocesi di Noto in vista delle prossime elezioni politiche del 4 marzo dal titolo “Tutto è politica, la politica non è tutto. L’impegno del cristiano cattolico per il servizio al bene comune”.

Tutto è politica, la politica non è tutto
L’impegno del cristiano cattolico per il servizio al bene comune
Orientamenti per la coscienza dei cristiani nella Diocesi di Noto, in occasione del voto politico nazionale del 4 marzo 2018
“Facendo il vescovo, vado maturando la convinzione che il problema più grande che si impone alla Chiesa italiana è la cura della qualità della fede dei suoi membri. Le eventuali sbavature e i limiti che talvolta si registrano per quanto riguarda la presenza della Chiesa nella vita della nazione, derivano da carenze e storture nell’esperienza di fede a causa, anche, di una mancata recezione degli impulsi del Vaticano II” (Cataldo Naro)
“Di fronte ai problemi sortirne da soli è avarizia, sortirne insieme è politica” (Don Milani ai ragazzi della Scuola di Barbiana)

Lo spazio della politica nell’esperienza della fede cristiana
Dio è “per” l’uomo
1. Pienamente inseriti nella società umana, profondamente solidali con i suoi drammi e le sue aspirazioni, i cristiani sono chiamati a vivere il giubilo di una certezza credente irrefragabile: nell’Incarnazione del Figlio, nella sua passione-morte e risurrezione, il Padre è vicino a ogni uomo, anzi, nel Padre di questo Figlio, Dio è “per” l’uomo. Poiché, secondo Gesù di Nazareth, “Dio è amore”, gli uomini potranno amarsi, riconciliandosi tra loro, entrando in una connessione che oltrepassa grandiosamente le possibilità tecnologiche (internet, social network), perché unifica “tutti nel tutto” di una storia “nuova”: là dove Dio c’è, è presente, esiste vivendo, e resta sempre ancora – nonostante il soffrire umano- provvidenza nell’Amore. Il Dio di Gesù è un Dio-per-gli uomini.

La pro-esistenza nell’amore di Gesù
2. L’esistenza di Gesù di Nazareth è “per gli altri”, assolutamente, “per tutti”. E’ proesistenza
d’amore per ogni uomo, per tutti gli uomini, per tutto l’umano. L’uomo che si
autocomprende come un viandante – le cui durature radici sono ben salde nel cielo della
sua vera patria-, saprà/potrà accoglierlo con la fede, decidendo in libertà di lasciarsi
illuminare dalla sua sapienza infinita, senza alcuna evasione, senza alcuna paura.
Nell’esperienza della fede, infatti, si apprezzano i tratti paterni del volto di Dio, la
graziosa delicatezza della sua incessante premura all’esistenza umana,
aprendosi/esponendosi al suo giudizio: è il giudizio della distruzione del male e
dell’esaltazione del bene; è giudizio di risurrezione che solo il Padre del Crocifisso può
elargire agli uomini per liberarli dalla morte definitiva e dal loro continuo quotidiano
morire.

La salvezza cristiana non è intimista
3. Il cristianesimo cattolico crede che il Crocifisso rigenera l’uomo dal profondo,
realizzando una sua purificazione da ogni interiore ambiguità, dal peccato. Lo orienta
così al suo destino eterno nel suo Regno. Questa salvezza non riguarda solo
l’interiorità umana, ma tutto l’umano. Esige pertanto di impiantarsi sulla terra, nella
società. Chiede di instaurarsi – per dirla con un linguaggio più tecnico – nell’ordine
temporale. L’agire della Chiesa cattolica potrà/dovrà, pertanto, essere verificato anche a
questo livello, quanto alla sua capacità di liberare l’uomo dalle schiavitù vecchie e
nuove, attraverso la predicazione del Vangelo. Fatte salve le doverose distinzioni, e nel
più profondo rispetto dell’autonomia della sfera della civitas, è sempre più necessario
superare certe ambigue separazioni tra “la fede privata” e “l’etica pubblica”,
invocando la legittimità di guardare al sociale, per illuminarlo con la luce del Vangelo,
senza per questo scadere in ingerenze indebite entro ambiti che sarebbero di non
pertinenza della fede e della Chiesa: a cominciare proprio dal luogo più delicato, ma
anche maggiormente compromesso, quello della politica.

Nella krisis della politica:
evangelizzare la politica
4. La politica ha, infatti, il compito di guidare e orientare il vivere sociale. Essa
rappresenta un servizio importantissimo per la soluzione di tanti problemi che
travagliano l’esistenza di ogni giorno, facendosi carico della loro inevitabile complessità
in tempi di radicata crisi. Eppure la politica, che dovrebbe aiutare al superamento della
crisi, è essa stessa oggi “in crisi”, “dentro la crisi”, “condotta dalla crisi”. L’urgenza di
un’evangelizzazione della politica, affinché essa possa riscoprire il proprio prezioso
ruolo e riappropriarsi delle modalità concrete e oneste del suo esercizio, è oltremodo
visibile nelle grandi questioni internazionali della pace, e nelle notizie circa le
sofferenze di tanti popoli oppressi, ma più localmente nelle contraddizioni tipiche dei
territori umani dell’Italia e dell’Europa: le attese di fondo della gente vengono quasi
sempre deluse e mai soddisfatte, mentre cresce il disorientamento dei giovani e il loro
sentimento di sfiducia, che li rende fragili prede delle suggestioni devianti della droga e
della mafia e, in generale, della corruzione.

Risveglio della partecipazione alla vita pubblica
5. Sfuggendo la banale tendenza a demonizzare la politica e le istituzioni che la
esprimono, l’appello rivolto alla coscienza di tutti, specie dei giovani, è quello di un
necessario risveglio di partecipazione alla vita pubblica e di corresponsabilità civica,
auspicando la nascita di forti esperienze di aggregazione quali luoghi di formazione, di
incontro, di elaborazione e di proposta. La fede cristiana non è separabile dal dovere
civico, perciò essa dovrà diventare anche esperienza educativa in questa stessa
direzione. Qui s’innestano i ripetuti tentativi per la realizzazione di una vera e propria
Scuola di formazione socio-politica: si trattava di acculturare i cristiani disponibili a un
impegno nel politico, con i princìpi cardini della dottrina sociale della Chiesa. Il
cristiano cattolico deve contare sulla possibilità di un percorso educativo, perché –
educato all’agire politico dalla Dottrina sociale della Chiesa cattolica- possa esprimere
il suo umile servizio (anche a nome della comunità cristiana), nel luogo umano della
politica, guardando a figure e modelli significativi di rettitudine, di pazienza, di
oggettiva percezione del “bene di tutti”, il bene comune, baluardo intranscendibile per
una buona politica, oltre la tentazione dell’equilibrismo tattico, del compromesso tra i
gruppi, nella lottizzazione del potere. Qui non si può non pensare a La Pira (che nacque
a Pozzallo), ma anche al prete siciliano, il beato don Pino Puglisi (palermitano dell’altro
ieri), la cui coerenza cristiano portò al “martirio”.

La politica come carità sociale
6. In quest’avventura di ridefinizione della politica come carità – Giorgio Lapira parlava
della dimensione eucaristica del servizio della politica-, la fede cristiana si connota
socialmente: è carità sociale, quale disposizione a servire l’uomo in piena onestà e
coerenza, senza favoritismi, ma nel rispetto dei diritti di ognuno e di tutti. Ai cristiani
laici è richiesto di “soffrire” per una testimonianza autentica nello spazio prezioso della
politica, organizzando e donando volto alla “coscienza critica” che la fede implica.

Identità cristiana e apertura al dialogo
7. Le questioni aperte sono diverse e tutte delicate. Considerata la condizione
pluralistica della nostra società, nella quale convivono moltissime visioni del mondo e
della realtà: si pensi oggi ai grandi temi delle immigrazioni, o le criticità di leggi legate
all’inizio e alla fine della vita, la procreazione assistita o il testamento biologico. Il
problema di fondo è, anzitutto, quello di pensare la possibilità di un dialogo leale e non
strumentale, con tutti, senza abdicare alla propria identità. “Affermazione dell’identità
cristiana” e “apertura nel dialogo” sembrano a prima vista dimensioni non componibili.
Nella dialettica dell’esistente, tuttavia, il cristiano può dare buona prova di sé, di quella
capacità – tipica della fede cristiana – di far “coincidere gli opposti”. Occorre, però,
entrare nel travaglio della vita, assumendone senza evasione i drammi e le sofferenze,
sempre fiduciosi, ancorati all’esperienza di risurrezione di Colui che ha vinto ogni
morte aprendo il mare chiuso della disperazione per tutti e, così, a tutti donando
speranza.

Per costruire la polis, a misura d’uomo
L’impegno della comunità e del prete
8. Certamente il cristiano impegnato in politica non può vivere il suo percorso
isolatamente e individualisticamente, dovrà essere supportato da tutta la comunità. Nella
Chiesa, nessuna figura può definirsi da sé soltanto, o a parte. Ogni ruolo si comprende
in un sistema d’inter-relazionalità, costitutivo del popolo di Dio, quale corpo ben
compaginato. In questo anche il prete nella parrocchia ha il suo compito: l’identità del
presbitero, infatti, appare decisivo per la nascita di una nuova laicità nella formazione
di tutti i credenti. Non si tratta di politicizzare i preti, ma di farli diventare con
consapevolezza “animatori dei laici nei cantieri di una città per tutti”, affinché la
presenza dei cristiani in politica sia anche profetica, annunzi cioè il venire di Dio negli
stessi fallimenti umani.

Per ringiovanire la politica
9. Oltre ogni privatizzazione del fatto religioso che pretenderebbe relegare Dio nel
cantuccio intimistico della propria coscienza interiore, i cattolici lotteranno nello sforzo
di incarnare una “politica per la libertà”. Senza evadere dal misterium crucis sapranno
irradiare nel sociale la salvezza cristiana, testimoniando non solo la loro capacità di
convertire i cuori dalla cupidigia, dall’intolleranza, ma anche dal clientelismo, dal
malaffare, costruendo un nuovo stile dialogico e progettualmente costruttivo, nella
valorizzazione di tutte le energie positive disponibili, per la creazione di una città “a
misura d’uomo”. Se si tratta proprio della costruzione della città a misura dell’uomo,
allora si capisce meglio l’urgenza del servizio d’illuminazione e di testimonianza che la
fede deve offrire, per un ringiovanimento della politica e per una sua feconda
animazione.

L’uomo “secondo la fede” misura la politica
10. L’antropologia cristiana, infatti, getta luce su dimensioni dell’umano, difficilmente
percettibili all’occhio nudo della ragione, specie se disorientata da certo laicismo. La
fede ha dell’uomo una visione che non riduce l’umano alle condizioni materiali della
sua esistenza storica, riconoscendovi un’apertura al trascendente, qualificata a sua volta
dall’autocomunicazione stessa del Trascendente assoluto, “Dio come Padre e
Amore/agape”. Una declinazione della rivelazione di Dio in Cristo, nella definizione
dell’uomo, comporta che la politica misuri la città su un tipo di umano, la cui valorialità
è colta dal credente come frutto della creazione di Dio ed è considerata nella sua
autenticità e pienezza in Cristo, il quale è la verità dell’uomo. Il rapporto tra fede e
politica non implica, perciò, soltanto una riflessione circa la determinazione di un
modus vivendi tra due sfere separate, di cui occorra trovare una convergenza in alcuni
punti. C’è in gioco molto di più: si tratta di una dialettica circa le concezioni dell’uomo,
della profondità del suo bene-essere e delle finalità del suo agire. Poiché la politica ha
sempre un’ispirazione che crea le regole e orienta le scelte, il dibattito culturale – al
quale i credenti non possono sottrarsi, né permettere che chiunque vi sfugga – riguarderà
alcuni requisiti di natura etica e spirituale, costitutivi della vita pubblica e fondanti il
bene comune di tutti.

Guidata dai valori, la politica guida l’economia e non viceversa
11. Irrecusabile è, allora, la convinzione che la politica debba essere guidata da alcuni
valori essenziali e che non è riduttivamente riconducibile alla sola amministrazione:
deve continuamente cercare un orientamento culturale per poter meglio gestire il suo
doveroso rapporto con l’economia, da cui non si deve lasciare incastrare, in tempi di
globalizzazione e di accentuata complessità. La politica deve guidare l’economia e non
viceversa (come spesso accade oggi). E’, d’altra parte, proprio lo snaturamento di
questa relazione a divaricare sempre più l’efficienza dalla solidarietà, i valori dal
consenso, le aree forti dalle aree deboli del paese, con un consistente danno per quella
fiducia sociale che, in una convivenza civile, è la forza della buona amministrazione
politica. Da queste divaricazioni, poi, derivano purtroppo forme e comportamenti
politici evidentemente inutili e dannosi, per la promozione di ogni persona e di ogni
cittadino: si pensi alle frontiere dischiuse dalla scienza e dalla tecnologia in ambito
etico, o anche alle decisioni in materia di politica familiare, senza considerare le
mancanze di rispetto per la vita umana in ogni dove, magari perpetrate come “conquiste
civili della libertà”. L’attuale congiuntura politica mostra non poco disorientamento,
con il rischio radicale di restare un recipiente invecchiato, senza contenuto. La crisi,
allora, richiede al cristiano un supplemento d’impegno e di autocomprensione, di
crescita e di maturazione per un servizio illuminato di formazione ed educazione, dove
l’uomo si sviluppa o si perde inesorabilmente. Su questo la Chiesa è chiamata a
praticare con generosità la “carità intellettuale” (A. Rosmini).

Riscoprire una vera laicità nel dialogo tra fede e politica
La Chiesa è dialogo, si fa dialogo
12. L’allora arcivescovo di Crotone-S.Severina, S.E. Mons Agostino, nella sua lettera
pastorale per la quaresima, dell’anno 1989, su “Fede e politica: quale dialogo” – alla cui
stesura ho avuto la gioia e la responsabilità di partecipare, insieme ad altri- chiedeva
autorevolmente di riscoprire la vera laicità della politica. In un tempo di grandi
stravolgimenti politici internazionali e di ricerca di nuovi assetti tra Ovest ed Est, –
anche per alcune difficilissime situazioni locali di particolare stallo e di mortificazione
della vita sociale-, quel Vescovo, pastore illuminato, sentiva il dovere di ribadire
profeticamente la natura dialogica propria della Chiesa e della fede, ricordando sin
dall’incipit le parole di Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam: “La Chiesa deve venire
a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa
messaggio, la Chiesa si fa colloquio”.

Risanare l’agire politico
13. E’ ovvio, il dialogo tra la fede e la realtà socio-politica va perseguito e attuato non
come gioco al compromesso, ma come cura particolare per individuare gli spazi della
comunione possibile. Cosa però impossibile senza uno “scavo alle radici”, per una
rivisitazione di alcuni presupposti culturali che appaiono indispensabili al risanamento
dell’agire politico, e dello stesso vissuto credente. L’indagine si fa puntuale perché
individua strutture comportamentali precise: la mancanza di educazione all’ascolto e
l’imperante presenza “litigiosa” di una cultura del nemico, del sospetto, della diffidenza,
dell’avversario politico. Entro queste premesse, il dialogo è impraticabile e totalmente
illusorio. Occorre, d’altra parte, purificarsi da una duplice tentazione: quella del
dominio sulla società, attraverso l’esercizio del potere per i propri interessi, e quella del
lasciarsi strumentalizzare e asservire, perdendo la propria libertà interiore. E’ di sicuro
difficile collocarsi nell’ottica del servizio e della gratuità, in tempi nei quali certo
prassismo pressapochistico monopolizza atteggiamenti e pensieri.

Laicità non è laicismo
14. Più di ogni cosa, tuttavia, è urgente scaricarsi da un pregiudizio inibente ogni
dialogo tra fede e politica, e, purtroppo, molto diffuso da certo laicismo poco
criticamente avvertito: l’idea che la laicità si possa definire come qualcosa di separato
dalla fede. Sicché, per essere “laico”, bisognerebbe non avere riferimenti credenti o
mettere la propria fede tra parentesi. Da qui l’idea che alcuni spazi della vita – come
quello della politica – sarebbero “laici”, e per ciò stesso non praticabili dai “credenti”,
men che meno dai loro pastori, dai vescovi. Di conseguenza è diffusa anche un’altra
bizzarra ide: che su problemi di laicità è necessario intervenire da “laici”, cioè da gente
che usa la propria testa (=ragione) senza presunte ingerenze dogmatiche.

La politica non è un mestiere
15. La confusione linguistica è evidente. E’ necessaria, una bonifica del linguaggio per
resistere al degrado di una progressiva deculturalizzazione, che ha evidentemente
depauperato non poco l’agone politico: il rischio è visibile a tutti ed è quello di ridurre
la politica a mestiere eseguibile da tutti (ballerine, pornostar, escort), a prescindere da
competenze precise e, spesso, senza quel minimo di acculturazione, sempre necessaria
per diventare interpreti delle esigenze della gente ed essere capaci di progettualità, oltre
che di dialogo.

Non chiudere la Chiesa nella sagrestia
16. In nome di un’equivoca e imprecisa concezione della laicità non si può pretendere
di chiudere la Chiesa e i suoi rappresentanti ufficiali nella sagrestia, o nel tempio o
anche nell’impegno esclusivo della vicinanza agli emarginati, ai più miseri, ai poveri.
La sua presenza di “carità”, tuttavia, non può essere mal interpretata come un vago
altruismo, incapace di organizzare una pressione culturale e politica, per cambiare dal di
dentro certe strutture inique o non soddisfacenti, incidendo così nelle vicende sociali e
politiche. Ben diverso è, invece, il “Vangelo della carità”, secondo le illuminanti
indicazioni del Convegno ecclesiale di Palermo (1995), quale modalità propria dello
“stare del cristiano dentro la storia”. Il Vangelo si declina in tutti gli ambiti della vita, in
particolare nella cultura, nel sociale, nella politica, com’è sottolineato dalle Settimane
sociali dei cattolici, m anche dal Convegno ecclesiale di Verona (2006), dove Benedetto
XVI sottolineò il dovere della Chiesa di indicare ai laici il rischio di leggi che
contraddicono valori e principi “radicati nella natura dell’essere umano”, riferendosi in
modo preciso al “rischio di scelte politiche e legislative” legittimanti forme di amore
ritenute deboli e deviate, “unioni diverse dalla famiglia fondata sul matrimonio”, leggi
che non tutelano la vita dal concepimento alla morte. D’altronde, il cristianesimo genera
un nuovo umanesimo, com’è stato ribadito al Convegno ecclesiale di Firenze (2015)
che nell’ultima delle “cinque vie” (uscire, annunciare, abitare, educare e trasfigurare)
chiede al cristiano di “trasfigurare tutta la realtà che lo circonda”, anche la politica,
dunque. Se la carità è quella del Vangelo, è quella di Gesù di Nazareth, il Vangelo
vivente di Dio, allora il farsi prossimo al fratello va ben oltre una generica emozione
umanitaria: si distingue radicalmente da una più o meno profonda filantropia. La carità
diventa la forma della vita del cristiano, perché ha assunto essa pura una forma dalla
vita del Figlio di Dio incarnato, morto e risorto, la forma eucaristica del farsi per tutti
“pane spezzato e sangue sparso” per amore.

Illuminare cristianamente la politica è ispirarla eticamente
17. Proprio perché la fede opera per mezzo della carità, è chiamata a stare dentro ogni
spazio umano della politica per illuminarla cristianamente, ispirarla eticamente: la
mission è che la politica si viva come politica “genuina”, cioè una politica
corrispondente alla propria definizione, alla propria essenza. Sulla scia di Giovanni
Paolo II – che nella Christifideles laici del dicembre 1988 ha definito al n. 42 la politica
come la “molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e
culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune” –
si può notare il carattere, diremmo trascendentale, della politica, con uno slogan quanto
mai efficace: “tutto è politica, ma la politica non è tutto”, evitando che si dia una
interpretazione soltanto partitica di essa. L’esperienza partitica è solo “una espressione”
della politica, perciò l’orizzonte della politica è molto più ampio: ogni lavoro sociale e
culturale, infatti, aiuta a costruire comunitariamente la polis, anche quello che la
comunità cristiana, quale comunità di fede, deve svolgere e di fatto realizza.

Incontrarsi sui valori, sapendo e potendo riconoscere “i valori non negoziabili”
Le esigenze della fede nel bene comune
18. Poiché lo scopo della politica è la realizzazione del bene comune, tutti devono
concorrere a raggiungerlo, cominciando a declinarlo: qui la fede mostra esigenze
esplicite, perché vengano riconosciute come bene comune alcune sue concretizzazioni
importanti, quali:
-la difesa degli ultimi;
-il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo;
-il superamento della logica del profitto;
-la crescita della libertà umana;
-l’umanizzazione del vivere sociale;
-la “spoliticizzazione” di alcune strutture sociali, purtroppo da tanto tempo
succubi di logiche clientelari.
L’urgenza di rifondare i partiti è, allora, solo una tappa di un disegno organico
più ampio, volto a eticizzare complessivamente la politica. La fede può e deve
intervenire: i credenti sono cittadini e, da cittadini, a nome proprio, devono direttamente
impegnarsi in politica. Come cittadini sono credenti e, dunque, non disdegnano di
accogliere, in libertà e ragionevolezza, l’illuminazione che dalla fede proviene per la
loro coscienza.

Dogmi e verità liberano creatività e intelligenza
19. Questo riferimento veritativo e dogmatico nulla toglie alla propria creativa
intelligenza, poiché la fede permette l’incontro con la Verità di Dio, la quale non
sacralizza le realtà terrestri, ma le autentica, restituendole alla loro verità, le purifica da
ogni ambiguità, le riorienta al loro originario senso, quello stesso che il Dio “traendole
dal nulla” ha messo dentro di loro, secondo il suo eterno piano creativo. La Verità di
Dio – che illumina la coscienza del credente attraverso la fede-, è Cristo stesso, il “vero
uomo”, il modello a cui specchiarsi per riconoscere la vera umanità e poterla realizzare
nella sua più profonda dignità.

Laicità e autonomia delle realtà terrestri
20. Da qui, si deve riconoscere la rilevanza politica della laicità cristiana, che si
distingue e, anche, si separa da ogni forma degenerante di laicismo. Si tratta di una
laicità che scaturisce dalla fede, e, dalla fede, è sostenuta. E’ laicità (sine glossa), tutta
immersa a vivere le realtà del mondo con intensità, senza evasioni di sorta, ma in tutta
responsabilità, nella vita normale di ogni giorno, quando si studia, si lavora, si
stabiliscono relazioni professionali, sociali, culturali o si progettano politicamente le
tendenze necessarie del futuro della convivenza civile. Il nodo vero da sciogliere – per
un’adeguata opera di chiarimento, d’altra parte basilare per un dialogo vero tra fede e
politica – è l’intendersi sul concetto di autonomia delle realtà terrestri. La lezione del
Concilio, in Gaudium et Spes n. 36, resta impareggiabile: la giusta autonomia del
mondo (seculum) non legittima per nulla lo scardinamento delle scelte politico-socialieconomiche
dal loro doveroso riferimento etico e, per tanti versi, dal loro rilevante
riferimento religioso, quando la religione si pone come una necessaria interpretazione
veritativa del momento etico.

La questione etica della politica, i valori comuni (non negoziabili?)
21. Con non poca retorica nominalistica, viene sbandierata da qualche tempo e da tutte
le parti “la questione etica della politica”. Nel 1989 essa aveva assunto anche nella
politica di governo la dignità di “priorità programmatica”. Le difficoltà erano, e sono
ancora oggi, non risolte. L’appello generalizzato ai valori comuni, quale piattoforma di
interesse pubblico su cui convenire, e da cui ripartire, per un dialogo effettivo tra tutte le
parti, si scontra infatti con la presenza di un contesto culturale frantumato, “liquido e
gassoso” (Z. Bauman). Le variazioni ideologiche pluralistiche sembrano impedire – fino
allo scoraggiamento – una percezione del valore che sia oggettiva e, dunque,
universalmente valida. “Incontrarsi sui valori” può avere oggi il sapore amaro di uno
slogan dialogico illusorio quando non si voglia o non si possa convergere
sull’identificazione di un fondamento del valore (chiamalo pure “principio
irrinunciabile”), per un suo oggettivo riconoscimento. Nel cattolicesimo odierno c’è
tanto disorientamento: dopo la stagione dei valori non negoziabili da identificare come
paradigma per discernere, giudicare e agire, si è passati alla stagione della loro
inesistenza. L’espressione “valori non negoziabili”, può essere brutta (imposta dalla
congiuntura culturale nietzschiana secondo cui “tutti i valori sono negoziabili e
interscambiabili”), ma dice la verità oggettiva del valore riconoscibile e la possibilità
conoscitiva della persona umana di identificare il valore in quanto valore e perciò di
poterlo/volerlo condividere universalmente in quanto valore. Per restare sull’attualità,
con un solo esempio: si può “negoziare” il valore (non negoziabile) dell’accoglienza
degli immigrati e dei loro inalienabili diritti, in quanto esseri umani, di vivere una vita
degna di un essere umano? La dignità umana delle persone non è un principio
irrinunciabile che fonda il valore non negoziabile della loro doverosa accoglienza? Una
cosa è “governare politicamente un fenomeno complesso”, un’altra è “negoziare”
(spesso anche solo economicisticamente) sulla vita degli altri. E in nome di quale
potere?

Crisi della ragione e capacità dell’uomo di sapere la verità
22. Dietro a questo c’è il grande tema della crisi della ragione, da riprendere nel
dibattito ecclesiale, a vent’anni dell’enciclica Fides et ratio, per rifondare la cultura del
terzo millennio, a fronte di alcuni stili teorici dominanti nel pensiero. Un’ipertrofica
autocomprensione moderna di sé ha portato la ragione allo svilimento di tutte le sue
forze, e a una sua stabilizzazione scetticizzante e debolistica, che non può ovviamente
soddisfare il pensiero della persona, capax veritatis, capace di verità. Se la ragione non
riesce più a sapere la verità o se la verità, per la ragione, non esiste perché le è
irraggiungibile, come potrà avere un minimo di senso umano l’annuncio cristiano che
Gesù di Nazareth è la Verità. Il debolismo veritativo della ragione sembra allora togliere
le premesse linguistiche al kerigma del credente, il quale invece sa che nell’evento della
crocifissione-morte e risurrezione del Figlio di Dio la verità di Dio e la verità dell’uomo
si sono offerte al riconoscimento umano. Questo riconoscimento è certo “credente”,
avviene nella fede e per mezzo della grazia di Dio. Non di meno poggia inesorabilmente
su tutte le energie dell’uomo, anche sulla ragione che, dell’uomo, è uno dei grandi segni
di distinzione rispetto all’universo cosmico.

La Verità assoluta esiste e, per il cristiano, è Gesù Cristo
23. Così, la fede può e deve far affidamento sulla “forza della ragione” per una
mediazione razionale possibile delle sue verità centrali. Proprio per questa mediazione
razionale, esse mostreranno, da una parte, la loro misteriosa eccedenza e, dall’altra, la
loro sapienza per l’uomo, perché sapienza portata da “un uomo vero”, saputo dalla fede
quale il Figlio stesso di Dio nella carne umana. Gesù è la Verità in persona o, meglio, la
persona della Verità. Questa Verità-in-persona, in quanto è il Figlio di Dio, è Verità
assoluta. Lo è assolutamente, veramente: non perché è sciolta da ogni legame – come
indurrebbe a pensare l’etimo di absolutus, contraddicendo la notizia biblica della verità
che è sempre personale e relazione (Dio è Trinità, Gesù è una persona)-, ma perché,
certo, è sciolta da tutti quei legami che gli impedirebbero di essere ciò che è
dall’eterno, Amore sempre e solo Amore, Amore assoluto. L’assolutezza di questa
Verità splende nel Crocifisso: qui, dove la morte che gli uomini danno a Dio, non
impedisce a Dio di continuare ad amare nel perdono, mostrando così la sua “gloria”
(Kavod), l’essere eternamente amore, solo amore, sempre amore.

Attenzione alle nuove povertà
La fede non è un’opinione, ma è un sapere
24. In questa direzione appare impossibile – benché invece il laicismo la persegua con
certa pervicacia – la riduzione della verità della fede a opinione. La fede è, invece, un
sapere vero e pieno, integrale. Mentre accoglie la rivelazione di Dio, essa è, infatti,
riferita all’uomo, a tutto l’uomo, nella totalità dei suoi fattori e delle sue manifestazioni
vitali. La fede nel Crocifisso di Dio illumina, allora, la croce di una politica incapace di
rinascere dal vuoto di fondamento valoriale in cui si trova seppellita da tempo.

Un cristianesimo rivoluzionario, piuttosto che un cattolicesimo convenzionale
25. Il cristianesimo dovrebbe, così, mostrare la sua forza sociale, la sua carica
rivoluzionaria, proprio permettendo alla politica di risuscitare da quella morte che la
rende sempre più cadaverica, ridotta alla sola cura dell’amministrazione del denaro
pubblico o all’esercizio di procedure, continuamente sempre cangianti, perché
dipendenti dalle congiunture del momento. Un nuovo respiro, una nuova speranza, una
nuova apertura di orizzonti dovranno rianimare la politica. I tempi lo richiedono, la
società globalizzata lo esige e la fede non può non farsene carico: le negligenze e le
insufficienze a tutti i livelli della convivenza civile e religiosa non possono diventare un
pretesto per il disimpegno. Il cattolicesimo convenzionale – nella misura in cui non
riesce a stringere fortemente la ritualità cattolica dei sacramenti con l’operosità della
carità in tutti i campi- non è all’altezza del cristianesimo rivoluzionario di Gesù, di cui
oggi c’è bisogno. Anzi, vivendo una frattura tra verità e storia, tra fede e cultura, il
cattolicesimo convenzionale diventa progressivamente sempre meno cristiano. Nei
grandi cantieri aperti al futuro, il nuovo secolo richiede cristiani impegnati con il
Vangelo della carità, operosi e costruttivi sui terreni dell’intelligenza e della libertà.
Cristiani cattolici (e non cattolici convenzionali) capaci di entrare nelle contraddizioni
del mondo col desiderio di cambiare tutto, di innovare l’esistente, con una particolare
attenzione ai drammi della vita umana, quando è impoverita dalla mancanza di lavoro, o
disorientata per l’assenza di un nucleo familiare stabile, o manipolata dalle potenti
tecnologie o incontrollatamente privata dal suo habitat naturale. Perciò lo slogan-
“dall’Eucarestia celebrata in chiesa all’Eucarestia vissuta per le strade del mondo”, tra
le periferie esistenziali (Papa Francesco) delle grandi metropoli-, ha un significato
politico preciso.

Oltre ogni integralismo
26. Una nuova presenza cristiana nella società non potrà che arricchirla, ma deve essere
possibile una laicità cristiana profondamente dialogica, “non neutrale, ma nemmeno
aggressiva”. Anche qui il Crocifisso è un modello insuperabile: contemplando la croce,
infatti, si viene a sapere che la fede non strumentalizza mai nulla, ma dona tutto; non
boicotta l’umano, ma lo serve integralmente, autenticandolo e portandolo a pienezza.
Così la fede cristiana risulta efficacemente antiideologica, perché non coglie un
elemento del tutto per assolutizzarlo, mentre invece si immerge umilmente nel tutto per
farlo lievitare e fermentare. Ogni integralismo va espunto come innaturale per la fede
cristiana. Chiarezza, mitezza, fiducia, prudenza, saranno le caratteristiche – già indicate
da Paolo VI nella Ecclesiam suam-, di questa nuova laicità dialogica che serve la verità
e non cerca il consenso e – per dirla con una simpatica e provocante espressione di don
Mazzolari – “fa strada ai poveri senza farsi strada”.

L’attenzione privilegia ai poveri
27. L’attenzione privilegiata ai poveri è un’opzione preferenziale della evangelizzazione
della Chiesa. Qui l’insistenza di Papa Francesco su “una Chiesa povera per i poveri”
deve avere anche la forza di “un comandamento per la politica”, che si rigenera e
diventa servizio. Da questo versante l’Evangelii gaudium è una mappa sicura per il
cristiano che vuole impegnarsi in politica: come un paradigma di riferimento, una
grande istanza su cui la politica deve costruire il proprio servizio per il bene comune e
la fiducia sociale. Senza, con questo, voler ridurre la povertà ad assenza di denaro e di
condizioni materiali, adeguate per il sostentamento. Povero è, infatti, “colui che manca
di un bene essenziale alla vita”: esistono pertanto poveri di cultura, di sapere, di
amicizia, di affetto, i quali troppo spesso cercano risposte impossibili ed equivoche
nell’idolatria del sesso, del successo, del potere. Esiste in particolare una povertà
diffusa, non solo economica ma anche d’interiorità e di autostima, per la sempre
crescente disoccupazione giovanile o per lo stillicidio dei posti di lavoro già esistenti. E’
questa una croce umana difficilmente sopportabile, che accomuna purtroppo tanta gente
al Sud. E’ una croce alla quale s’inchioda – forse con troppa superficialità- diversi padri
e madri di famiglia, rendendo precario il futuro e innestando paure dolorose.

Questa economia uccide
28. “Questa economia uccide” (Papa Francesco). Il Sud, e in particolare la Calabria e la
Sicilia, è vittima dei continui colpi di una logica economica in cui l’uomo resta
schiacciato dal mercato che fa prevalere il profitto sulla persona. Pensando alle
famiglie e, soprattutto ai figli dei colpiti, il cristiano impegnato in politica – penso a un
La Pira-, esprime non retoricamente, con la propria prossimità, la vicinanza di Dio alla
sofferenza di chi giustamente chiede lavoro e, così, vivere dignitosamente. Senza
pertanto volersi sostituire all’azione sindacale – anzi rispettandone il ruolo e
richiedendone un impegno indefesso-, sarà necessario riaffermare il principio
importante secondo il quale l’economia e le scelte aziendali vanno illuminate dalla
solidarietà e non solo dal profitto, essendo eticamente fondate sui diritti della persona,
in quanto la persona umana è “diritto sussistente” (A. Rosmini).

Osare il lavoro
29. La discussione intorno ai problemi sociali e del lavoro va dunque rilanciata, oltre la
visibile stanchezza che su questi temi sembra serpeggiare in ambito ecclesiale. E’
questo un interesse vitale per l’evangelizzazione della Chiesa, perché negli affetti e nel
lavoro si sintetizza la vita stessa dell’uomo. Una fede rassegnata, o distante, rispetto al
lavoro non sarebbe la fede dell’Incarnazione, ma dell’alienazione. “Osare il lavoro”
diventa allora un modo con cui la comunità cristiana riannuncia oggi la Buona novella
del Regno di Dio, che viene a liberare la povera gente dalle sue croci, ridando senso
all’avventura della vita.

Il lavoro che manca e la “questione meridionale”
Il Sud d’Italia come laboratorio di speranza
30. Giovanni Paolo II, nella sua visita in Calabria nell’ottobre 1984, in uno dei suoi 17
discorsi aveva ben identificato il problema calabrese chiarendo che la questione sociale
in questa regione si chiama “questione meridionale”, precisando: “si tratta di una
questione che investe complessivamente tutti gli aspetti della vita di un popolo: c’è
l’aspetto economico relativo al diverso grado di sviluppo tra Nord e Sud d’Italia, c’è
l’aspetto sociale riguardante le differenti condizioni di vita delle popolazioni
meridionali, c’è l’aspetto morale legato a talune forme di comportamento ed a talune
manifestazioni di criminalità, vi sono tante preoccupazioni sociali, la prima delle quali è
la disoccupazione ed in particolare quella giovanile ed intellettuale che richiedono
urgentemente di essere sanate”. In tempi di transizione, si esige un pensiero che aiuti a
non lasciarsi travolgere dalle emergenze, ma anche tale da prospettare percorsi possibili
di speranza. E ci sono, poi, luoghi in cui i problemi sono drammatici e, proprio per
questo, possono spingere maggiormente a cercare delle vie d’uscita. Nel nostro tempo,
il nostro Sud, il Sud d’Italia – se la lettura diventa capace di cogliere i suoi valori –
potrebbe diventare un laboratorio di speranza concreta, capace di misurarsi con le
sfide più difficili e le esigenze più alte.

La disoccupazione giovanile e il suo risvolto umano ed ecclesiale
31. La repentina trasformazione della nostra società segnala cambiamenti sensibili a
tanti livelli, ma si orienta al benessere come sua nota fondamentale. Per questo la
disoccupazione giovanile diventa la più drammatica delle emergenze: ritenere che sia
soltanto una mancanza di lavoro che impedisce l’accesso al denaro, è del tutto
fuorviante e superficiale, perché non tiene in dovuto conto il suo risvolto antropologico
di insicurezza e di inquietudine nella stessa percezione di sé, oltre l’aspetto
psicodinamico della frustrazione costante con la quale si è purtroppo costretti a
convivere, fino talvolta all’ebetismo in casi non rari e, comunque, in una condizione di
adolescenza interminabile. In questo degradante contesto, il lavoro cambia non solo
nelle sue modalità concrete, ma anche nella sua definizione essenziale: è colto più come
mestiere per vivere, per conseguire il successo e far carriera e sempre meno come
spazio per autenticare l’esistenza, per vivere le relazioni con gli altri, ambito in cui
scoprire e imparare a trovare un significato, una vocazione, un valore in sé. Il problema
della disoccupazione filtra e investe una serie di problematiche sociali e politiche, e
anche ecclesiali. Come tutti i pastori della Chiesa cattolica possono annotare, sempre
molte più persone vanno dal vescovo per bisogni poco direttamente inerenti al suo ruolo
ecclesiale, pastorale e di direzione spirituale. Chiedono, invece, il posto di lavoro, il
superamento di un concorso, l’assegnazione di una casa, un trasferimento, la recezione
in un Ospedale e “altre strane richieste”, dentro la logica ancora persistente della
raccomandazione (anche se ora è più denominata “segnalazione”).

Comprensione equivoca del ministero del Vescovo
32. Il disagio sociale porta a “una comprensione equivoca” del servizio apostolico del
Vescovo, mentre la sua missione della Chiesa non è di potere, d’influsso, ma di
profezia: la degenerazione del vivere sociale e politico, d’altronde, tocca non solo
l’impegno attivo delle comunità, ma anche culturalmente il modo di sentire una
presenza. Allora, l’urgenza di ricostruire il tessuto sociale e politico apparirà anche un
modo per riscattare la visione della Chiesa da ogni banalizzante approccio, potendo
chiarire che se il pane è un problema importante, resta pur vero che “non di solo pane
vivrà l’uomo”. Il peregrinare doloroso e speranzoso alla casa del Vescovo, segnala il
bisogno di un approdo d’anima, di una confidenza possibile, di un’attenzione di ascolto
preclusa dappertutto. Più globalmente, rimanda a un’emarginazione avvilente, la quale
dovrebbe essere insopportabile all’occhio politico, mentre appare all’occhio credente
come una squalificante “struttura di peccato”.

Elevare un grido di verità
33. Nel deserto arido di tante ipocrite e inconsistenti promesse, mai mantenute, non solo
il Vescovo, ma tutta la comunità cristiana è tenuto a elevare un grido di verità, per
contrastare il malcostume clientelare, che lede alla fine i diritti di tutti, per orientare a
vivere l’onestà civica, chiedendo la condivisione dei problemi dell’oggi, compiendo
gesti concreti di servizio all’uomo, facendo la scelta degli ultimi, denunziando
profeticamente ogni ingiustizia, animando con serietà il proprio territorio, dialogando
costruttivamente con quanti operano in tanti modi nel sociale e costruendo speranza e
pace dentro ogni situazione, anche nelle situazioni-limite.

Eucarestia sociale
34. La presenza eucaristica – fonte e culmine dell’agire della Chiesa – è presenza del
dono del Crocifisso per perpetuare nella vita il gesto di Gesù che si fa pane spezzato e
sangue sparso per amore. E’ condivisione del pane comune, è cum-panis, compagnia
alla vita di tutti, specie dei più poveri e sofferenti. E’ un portare il Vangelo di Gesù nella
storia degli uomini per aver condotto, anzitutto, la storia degli uomini nel Vangelo che è
Gesù. E’ un saper con-soffrire e con-morire, condividendo le inquietanti domande di
ognuno, al di là di ogni evasione inconcludente, permettendo alla forza scandalosa della
Croce di Cristo di entrare con la sua carica liberante nelle croci e nelle passioni delle
vicende umane. Avere la forza di affrontare i sacrifici necessari con un nuovo gusto di
vivere, dipenderà dalla riscoperta di alcuni valori propri del bene comune, quali la
tolleranza, la solidarietà, la giustizia sociale, la corresponsabilità. Soprattutto
comporterà un’inedita capacità d’identificazione degli emarginati e di lettura delle
situazioni dell’emarginazione, prendendo atto concretamente dei drammi che si
consumano tra le persone e portandone il peso, “caricandosele addosso”, sopportandole.

Farsi voce di chi non ha voce,
attraverso il meridione d’Italia, per tutti i Sud del mondo
La questione sociale “è” questione morale
35. Una lettura credente della crisi generale, cioè una lettura non epidermica o solo
socio politica, può spiegare come il fallimento dell’umano è dovuto direttamente dal suo
progressivo scardinamento da Dio, dall’estromissione del Vangelo della croce
dall’orizzonte di senso dell’uomo di oggi, idolatricamente attratto e abbagliato da nuovi
miti. Sicché, allora, la questione sociale è questione morale, e diventa questione della
verità integrale da riannunciare all’umanità: perché, infatti, non c’è moralità senza
verità, fondamento ultimo e anima di ogni giustizia. Il “farsi voce di chi non ha voce” è,
pertanto, impegno che non può essere ristretto entro i confini di un territorio particolare,
proprio per l’inter-relazionalità che caratterizza l’odierna società dell’interdipendenza.
E’ necessità che si dilata a raggi concentrici e, dal proprio cuore, attraverso le comunità
cristiane del Meridione d’Italia, si estenda per raggiungere i Sud del mondo: in un
abbraccio universale che tiene uniti e stretti tutti i nuovi poveri della terra, uomini e
donne, piccoli, giovani e vecchi, manipolati e violentati dai grandi apparati del potere
economico, più o meno occulto, dominato dall’efficienza e dalla smaniosa urgenza di
autorigenerazione, in una assurda e drastica noncuranza dell’uomo-persona.

Testimonianza cristiana e trasformazione sociale
36. Per tutti questi nuovi bastonati dalla storia – samaritani che sono costretti a vivere
nel rovescio dell’esistenza -, la profezia della Chiesa non smette di proclamare la verità
della croce di Cristo. Con l’Evangelii gaudium si deve insistere sul fatto che il servizio
ai poveri è parte integrante dell’evangelizzazione. L’urgenza di legare indissolubilmente
la testimonianza cristiana con la trasformazione sociale, per meglio visibilizzare
l’esperienza liberante della sequela di Gesù, non è più procrastinabile. L’Episcopato
italiano nel 1989 con Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno,
denunciava lo sviluppo incompiuto, distorto, dipendente e frammentato del Meridione
d’Italia, e chiedeva a tutti un impegno organico per la costruzione effettiva dell’unità
del paese, anche economica, costituita su una maggiore giustizia sociale e su una vera
condivisione solidale, per rifondare l’identità del popolo su basi, appunto, “più solide”.
Prospettive rilanciate dal nuovo documento del 2010, Per un Paese solidale. Chiesa
italiana e Mezzogiorno. I cristiani impegnati in politica- specie quelli che giustamente
lamentano di essere stati abbandonati dalla Chiesa cattolica- dovrebbero interrogarsi se
conoscono bene la Dottrina sociale della Chiesa e i documenti dei Vescovi italiani sul
Mezzogiorno. La retorica denigrante della “montagna dei documenti” suggerisce la
disaffezione alla lettura di queste piste che, invece, potrebbero motivare cristianamente
l’impegno politico per il bene comune e di servirlo come l’autentica politica ha fatto, fa,
e farà: un servizio fattivo alla società civile, quale contributo al superamento della crisi
economica, sociale e politica, in uno stile di riconciliazione e di disponibilità, contro
ogni atteggiamento di estraneità e di contrapposizione.

Il Mezzogiorno è questione comune di tutti i vescovi italiani
37. Il problema del Mezzogiorno riguarda tutto il Paese. Perciò, tutti i vescovi italiani, e
non solo quelli del Sud, hanno la mission evangelica di generare una presa di coscienza
collettiva dei problemi che gravano su una parte significative del territorio nazionale.
L’evoluzione economica nel periodo post-unitario ha, infatti, prodotto un effettivo
squilibrio tra Nord e Sud, un divario riconoscibile dagli indicatori socio-economici
disponibili ogni anno. La questione tocca inesorabilmente la vita stessa della Chiesa,
poiché il modello di sviluppo imposto al Sud pare non abbia proprio fatto perno sui
valori tipici del popolo meridionale, non riuscendo, così, a interpretare la sua identità
culturale e la sua vocazione per il futuro del Paese, con effetti disgreganti per il tessuto
economico-sociale e culturale contestuale. L’evangelizzazione del Regno di Dio,
quando è realizzata in modo incarnato, tiene conto del fatto che il Mezzogiorno è stato
più “oggetto” che “soggetto” del proprio sviluppo. Uno sviluppo dipendente non è
autosviluppo, impedisce l’autopropulsione nella crescita e perpetua le forme clientelari
con le quali i gruppi di potere locali istituiscono il consenso della base. La piaga del
fenomeno mafioso, particolarmente aperta in alcune zone, va situata proprio in questo
contesto.

Formare le coscienze alla solidarietà
38. La Chiesa ha il compito di umanizzare la stessa idea di sviluppo: poiché si tratta
sempre di sviluppo umano, esso non può essere concepito unilateralmente ed
esclusivamente come sviluppo economico. Solo così – nel quadro di una concezione
integrale dello sviluppo – si può apprezzare la “parola di concretezza” che la Chiesa
proclama per la soluzione del problema, quando ribadisce il suo compito primario della
formazione della coscienza, attraverso l’annuncio della verità evangelica. In definitiva,
la vera urgenza sta nel riorientamento etico della società italiana in funzione di una
scelta di sviluppo coerente e solidale. Il Paese deve crescere insieme – simpatico che
anche la “ex Lega Nord” lo debba riconoscere. Perciò deve recuperare la solidarietà,
quale categoria strutturante dell’agire politico. E’ quella della solidarietà, infatti, la
risposta ineluttabile alla nuova situazione mondiale che le trasformazioni in corso hanno
ormai creato e che, con espressione divulgata, è definibile come “villaggio globale”.

Mondializzazione e immigrazione
39. La mondializzazione diventa sempre più caratteristica propria anche dei problemi
più spiccioli. L’interdipendenza s’impone come un dato di fatto. Da qui l’urgenza
dell’impianto di una nuova coscienza e la crescita di una nuova cultura, nella quale i
valori della condivisione, della gratuità, della reciprocità e della comunione abbiano
priorità assoluta. Anche l’economica nazionale va strappata alla logica utilitaristica del
profitto e immersa in un rinnovato supporto etico nel quale il lavoro prevalga sul
primato della proprietà e l’individualismo sparisca di fronte alla solidarietà come neve
al sole. Il fenomeno dell’immigrazione che sta assumendo proporzioni enormi impone
un cambiamento e un’apertura non solo di cuore, ma d’intelligenza e di coscienza, oltre
che di strategia politica solidale.

Per una nuova cultura della gratuità
40. Qui d’altra parte s’innesta il grande contributo della fede per una nuova cultura della
gratuità, esatta dal Vangelo di Gesù. Il riferimento alla storia concreta di Gesù, –
propriamente all’evento del Crocifisso nel quale appare fin dove si spinge l’amore che
dona la vita per il bene dell’altro – , la solidarietà non rischia più di essere confusa con
un sentimento vago e indiscriminato di compassione, una tenerezza romantica verso il
dolore dell’emarginato, e diventa, invece, forza operativa di cambiamento e
progettualità storica, spazio effettivo di testimonianza dell’amore di Dio che ha sempre
solidarizzato con gli uomini, non disdegnando di morire in croce per loro. Anche la
Chiesa è impegnata a rinnovare la propria testimonianza di solidarietà affinché, libera
da ogni potere, sia profezia per il mondo, autentico segno di contraddizione rispetto a
qualsiasi dinamica socio-politica deviante nei confronti dell’autentico bene comune, sul
presupposto che il bene comune si coniuga localmente in considerazione della storia di
una porzione di popolo e in riferimento alle sue sofferenze strutturali e ai suoi bisogni
specifici.

Solidarietà, nuovo nome della pace
41. La pace non è solo assenza di guerra, e tuttavia la situazione di non-guerra è anche
pace e, funzionalmente, spazio aperto a ogni possibile e imprevedibile ricerca di fecondi
strumenti per una pacificazione più universale. Qui la pace – per rendere ragione della
concretezza del vissuto umano – sfugge il sofisma del binomio che la vede troppo
rigidamente e unilateralmente dipendente dalla maggiore o minore presenza, o assenza
di armi, per dichiarare il suo strutturale, originario e fondativo rapporto con lo sviluppo
integrale dell’uomo in tutti i paesi del mondo, nella promozione dei suoi diritti
fondamentali. Ora si ha veramente difficoltà a intravedere una relazione tra creazione di
armi e sviluppo, mentre inversamente appare palese e incontrovertibile il rapporto tra
corsa agli armamenti e sottosviluppo, specie per l’eccessivo investimento di risorse
economiche, divenuto intollerabile di fronte alla sconcertante miseria e povertà dei più.
Come sostenne la Sollicitudo rei socialis di Giovanni Paolo II, lo sviluppo nella
solidarietà è il nome nuovo della pace: sviluppo non solo economico, ma culturale e
religioso che porti l’uomo, attraverso il godimento di tutti i beni della terra, a
riconoscere praticamente la sua dignità di figlio di Dio, fatto a sua immagine e
somiglianza per la comunione e l’amore, depositario di un contenuto di trascendenza
che lo proietta oltre se stesso, divenendo il vero fondamento ultimo dei suoi gesti di
carità e di giustizia, di onestà e di verità, di pace.

Di Redazione

La redazione si occupa di redigere con professionalità, serietà ed etica le notizie al fine di fornire una informazione seria e puntuale

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